COVID–19: ne usciremo, ma serve una gestione intelligente

Intervista a Giorgio Bergomi, medico chirurgo

Giorgio Bergomi è un medico chirurgo specializzato in chirurgia e anatomia patologica cha ha lavorato presso l’Ospedale Sacco di Milano e successivamente presso Ospedale di Crema. Dopo una carriera lunga e apprezzata, soprattutto dai suoi pazienti, Giorgio ha scelto di impegnarsi come medico chirurgo nelle zone di guerra e nelle situazioni di emergenza con Medici Senza Frontiere. Reduce dal Congo, Giorgio, a inizio marzo si è reso disponibile per l’emergenza COVID e collabora con AST Cremona–Mantova. In questa intervista gli abbiamo chiesto di esporre ai soci CFL il suo punto di vista sulla pandemia COVID–19, basato sulla sua importante esperienza come chirurgo di Medici Senza Frontiere, quindi a contatto con malattie gravi e epidemie, come il virus Ebola. 

Come ha vissuto l’inizio della pandemia di COVID–19 a fine febbraio?

Ero da poco rientrato da Congo e avevo completato il protocollo di isolamento post–Ebola, quando ho deciso di dare la mia disponibilità alla ASST Crema per dare il mio contributo all’emergenza COVID–19. Seguendo le notizie e confrontandomi con colleghe e colleghi, avevo chiaro che si trattava di un particolare virus membro della famiglia dei coronavirus, scoperto a inizio gennaio in Cina e identificato come COVID–19.

Dal punto di vista di un medico, com’è stata la gestione dell’emergenza in Lombardia?

Molto problematica. Chiaramente si è trattato di un fenomeno improvviso ma il sistema sanitario non ha saputo affrontare correttamente l’emergenza. A noi medici era chiaro che si trattasse di una forma respiratoria che spaziava dal raffreddore alla polmonite bilaterale potenzialmente fatale ma a livello regionale sono state sottostimate la contagiosità e la mortalità causate da COVID–19, basandosi su dati poco certi della Cina.

Quali sono stati gli errori più gravi?

Innanzi tutto è mancata una reale gestione centrale dell’emergenza, soprattutto a livello di protocolli sanitari. Significa che ogni ospedale inizialmente ha lavorato per sé ed è mancato un coordinamento centrale, formato da medici competenti che potessero dire agli ospedali cosa e come fare. Le protezioni sono state rese obbligatorie troppo tardi e per diverse settimane sono stati curati per malattie da COVID–19, e quindi sottoposti a tampone, solo i pazienti molto gravi. Nel frattempo nelle case si andavano accumulando malati non diagnosticati che ne infettavano altri e si aggravavano lentamente fino ad arrivare in ospedale in condizioni critiche.

I medici di base che ruolo hanno avuto?

I colleghi medici di base sono stati messi in una bruttissima posizione. Dopo che la loro figura è stata sminuita negli ultimi anni dal sistema sanitario, con tagli di fondi e di risorse, si sono ritrovati a dover gestire tutti i pazienti COVID–19 in primo stadio senza avere né le dovute protezioni né un accesso veloce ai tamponi. In pratica hanno dovuto lavorare in situazione di emergenza e senza protocolli o linee guida, spesso infettandosi e trovando la morte.

Secondo lei perché il contagio in Lombardia è stato così veloce e con numeri elevatissimi? 

Come dicevo, ad inizio pandemia, quando ancora si parlava del COVID–19 come di un’influenza, sono stati fatti numerosi errori. La mancanza più grave è stata lo screening, ovvero gli esami a tappeto: senza tamponi non si è stati in grado di rilevare le persone infette che, di conseguenza, hanno sparso il contagio. Non parlo di asintomatici ma di persone con sintomi lievi o medi che non sono state mai sottoposte a tampone. Poi i trasporti: la Lombardia è la regione con più collegamenti tramite bus, treni, metropolitana e aerei e questi non sono stati bloccati se non tardissimo. Se aggiungiamo che le grandi aree industriali sono state chiuse tardissimo, ecco spiegata la diffusione incontrollata e rapidissima del virus. 

E le residenze per anziani?

Questo è un altro tragico risvolto della pandemia. Nelle residenze per anziani, in cui è normale che ci siano persone che contraggono la polmonite, c’è stato un aumento allarmante dei casi già da gennaio–febbraio ma è mancato un collegamento con il virus COVID–19, che veniva inizialmente associato solo alla Cina. Poi, a pandemia scoppiata, è mancata una gestione regionale delle RSA, che sono state abbandonata a sé stesse. Spesso in queste strutture i malati con febbre alta, anziché isolati, sono stati spostati più volte in camere e piani diversi e questo ha causato il contagio di molti altri ospiti.

Cosa dobbiamo sapere di questo virus? Può spiegarcelo in parole semplici ma esatte?

Il COVID–19 è un virus nuovo per l’uomo e dunque non c’è stato il tempo di sviluppare l’immunità. Questo virus si può contrarre solo attraverso le vie aeree, ciò significa che c’è bisogno che una minuscola goccia di saliva di un infetto entri in contatto con la bocca o il naso di un’altra persona. La spagnola, che fece 50 milioni di vittime nel mondo tra il 1918 e il 1920 circa, colpì a ondate ma oggi questo virus (H1N1) esiste ancora modificato e non è più così pericoloso per noi, poiché abbiamo sviluppato l’immunità.
Accadrà lo stesso per il COVID–19, ma ci vorrà del tempo.

Come si crea l’immunità?

In assenza di un vaccino, che al momento viene ricercato dai laboratori di tutti il mondo, l’immunità si sviluppa solo nei malati che riescono a guarire.
Una volta che il virus entra nel nostro organismo, lo attacca attraverso il DNA che sfrutta per replicarsi; il nostro organismo, allora si difende mandando avanti la prima linea, ovvero le immunoglobuline M. Dopo che la prima linea combatte la sua battaglia, subentra la cavalleria, ovvero le immunoglobuline G, che sono anche gli indicatori dell’immunità. In genere ciò avviene dopo 15 giorni dal contagio.

Che differenza c’è tra tampone e test sierologico con goccia di sangue o prelievo venoso?

Il tampone rileva la presenza del virus nelle prime vie aeree, cioè nelle mucose o nelle tonsille, e lo rileva se è quindi vivo e la malattia è nella sua prima fase. Il test sierologico condotto sul sangue (goccia o campione venoso) rileva invece la presenza delle immunoglobuline di cui parlavamo prima. Se si trovano le immunoglobuline M significa che il paziente è nella prima fase della malattia, di esito incerto. Se si trovano le immunoglobuline G e sono più alte delle M significa che l’organismo del paziente si sta muovendo verso la creazione dell’immunità. A guarigione ottenuta e in presenza di sole G, si ha l’immunità.

In questi giorni si attendono le prime riaperture, anche per limitare i danni economici. Quale sarebbe la via migliore per gestire in virus in fase 2?

L’ideale sarebbe eseguire il maggior numero di tamponi e test sierologici, scegliendo quale fare in base alla situazione di ogni paziente. Si potrebbero così lasciare liberi tutti gli immuni e i non contagiati di uscire e lavorare o andare a scuola; i contagiati (sintomatici e non) potrebbero invece restare in isolamento, essere monitorati e curati tempestivamente in caso di peggioramento. La speranza è che la regione e la nazione indirizzino bene i fondi verso una mappatura reale ed efficace dei contagi e limitino lo spreco di risorse cui abbiamo assistito, come i vari ospedali da campo o quello in fiera a Milano, rivelatisi poi inutili. È il momento che al Governo e in Regione si prendano le decisioni giuste tramite una sinergia di politici, amministratori e medici, per gestire al meglio e con intelligenza questa fase di ritorno alla normalità e guidare la nazione fuori da questa crisi. 

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