Il peso della nostra impronta tecnologica

Riempirci la vita di gadget elettronici inquina il nostro cervello e purtroppo anche la Terra. Cosa possiamo fare di realmente concreto per usare efficientemente la tecnologia digitale e ridurre il suo impatto ambientale?

Da anni, media e politica stanno cercando di farci credere che la tecnologia digitale costituisca un vantaggio dal punto di vista energetico/ambientale. Intuitivamente, far circolare dei bit elettronici al posto di pacchi di carta dovrebbe portare indubbi benefici. Eppure abbiamo l’impressione che qualcosa non abbia funzionato. Nonostante la massiccia iniezione di tecnologia digitale, lo stato del nostro pianeta non è migliorato, anzi. Il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, la perdita di biodiversità, l’esaurimento di risorse naturali e minerarie avanzano come non mai. Un dubbio ci assale: non è che il digitale, invece che la soluzione, sia una solenne fregatura?

Ricordate quando fu introdotto il fax? Doveva risparmiare il consumo di carta, ma ci siamo accorti quasi subito che questo era raddoppiato: si doveva stampare il documento due volte, una in origine e una a destinazione. Senza contare che la facilità d’uso dello strumento ha portato a moltiplicare la corrispondenza, che prima era ridotta al minimo a causa del costo dei francobolli.

Così, ora, al posto dei pochi bit che trasmettevamo ai tempi degli SMS e dei telegrammi, con la scusa che è tutto gratis, si trasmettono i megabit.

Ogni secondo della nostra vita. E fare questo richiede infrastrutture molto potenti: i nostri di­spositivi, le reti di comunicazione via radio e fibra ottica, fino ad arrivare alle gigantesche sale server dei giganti hi–tech.

Quanto pesa davvero?

Tutto questo consuma una montagna di risorse, richiede una montagna di energia e produce una montagna di rifiuti. Al punto che sarebbe meglio mandarsi dei fogli di carta attraverso il postino. Detto più chiaramente, la tecnologia digitale ha un impatto nefasto sul nostro pianeta.

Il danno maggiore, in termini ambientali, è dato dalla produzione e dallo smaltimento dell’hardware, vale a dire quella massa enorme di dispositivi elettronici che costituiscono questa infrastruttura. Prendiamo solo per esempio i nostri smartphone, che ne rappresentano solo il prodotto finale.

Dal libro del 2017 di Brian Merchant, The one device: La storia segreta dell’iPhone, apprendiamo quale sia l’impatto sulla Terra di ogni singolo smartphone. Per produrre un dispositivo di 130 grammi, devono essere estratti e lavorati circa 34 chilogrammi di minerale.

Tenendo conto che la produzione annua di questi gingilli si aggira sul miliardo e mezzo di pezzi (un miliardo e mezzo!), ciò significa 51 milioni di tonnellate di roccia mineraria estratta. Inoltre, ogni tonnellata di minerale elaborata per l’estrazione del metallo richiede circa tre tonnellate di acqua. Ciò significa che ogni smartphone inquina circa 100 litri di acqua. La produzione complessiva contamina ogni anno 150 milioni di metri cubi di acqua. E solo per l’estrazione dei minerali.

Oltre alla questione mineraria, c’è quella energetica, e l’effetto serra che si porta dietro. Quando si calcola l’impatto delle tecnologie sul clima, si ragiona solo in termini di consumo di energia per il funzionamento, e si trascurano le fasi di produzione e di smaltimento, assai più voraci di energia.

Un inquietante rapporto, pubblicato a settembre dall’European Environmental Bureau (EEB), rivela il costo energetico del selvaggio turn over dell’elettronica di consumo. Lo studio ha scoperto che il ciclo di vita degli smartphone europei è responsabile di 14 milioni di tonnellate di emissioni equivalenti (CO2 e) ogni anno. La durata media di uno smartphone in Europa è di tre anni, ma questo significa che sono molti gli europei che ne cambiano uno all’anno.

Aumentare la loro vita di un solo anno risparmierebbe più di 4 milioni di tonnellate di emissioni, ovvero la produzione di CO2 di 2 milioni di autovetture in un anno. Cifre così elevate sono dovute alla grande quantità di energia e risorse coinvolte nella produzione e distribuzione di nuovi prodotti e nello smaltimento di quelli vecchi.

Un altro studio, effettuato nel 2018 da Lotfi Belkhir e da Ahmed Elmeligi, dimostra che l’impronta di carbonio globale dell’industria dell’informatica, compreso il contributo dei principali dispositivi di consumo, nel 2040 contribuirà al cambiamento climatico per più della metà dell’attuale peso dell’intero settore dei trasporti. Cioè, detto in soldoni, trasportare bit costerà come trasportare merci, alla faccia dell’industria immateriale!

Ridurre il tasso di sostituzione

A completare il quadro fosco ci sono le enormi discariche abusive, in particolare quella di Agbogbloshie in Ghana e quella di Guiyu in Cina, dove finisce gran parte dei nostri rifiuti elettronici, in attesa di essere riciclata da uomini, donne e bambini, con mezzi di fortuna, a scapito della loro salute e di quella dell’ambiente.

I nostri telefonini, quindi, non hanno una dimensione completamente immateriale. Sono piccoli, ma sono estremamente materiali. Il problema non sta nell’impatto del dispositivo in sé, che comunque è ragguardevole, ma soprattutto in quello relativo al tasso di sostituzione.

Questi sono i motivi per far durare il nostro di­spositivo il più a lungo possibile. Non possiamo permetterci di continuare a sostituire dispositivi elettronici spesso. Abbiamo bisogno di prodotti che durino più a lungo e che possano essere riparati in caso di rottura.

Naturalmente il sistema economico e, a rimorchio, quello politico, hanno l’obiettivo opposto. Essendo ormai il numero dei telefonini in circolazione pari a circa il numero di umani, il mercato è saturo. Per cui, l’unico modo con cui i produttori possono continuare a vendere è che noi continuiamo a buttare via i vecchi.

I motivi che ci spingono alla sostituzione sono vari: una batteria che non dura più abbastanza da farci stare tranquilli tra una ricarica e l’altra, oppure l’uscita di un nuovo modello più avanzato, oppure ancora un componente guasto da sostituire, ma di cui non si trova il ricambio.

Da www.researchgate.netIl peso della nostra impronta tecnologica

Un pensiero su “Il peso della nostra impronta tecnologica

  1. Mi sembra quanto mai inopportuno pubblicare proprio in questo periodo un articolo di questo tono. Non fosse per le tecnologie digitali, oggi non potremmo lavorare da casa, nè evitare di far muovere persone, che sono i fulcri su cui si articola la lotta all’epidemia che stiamo vivendo. Inoltre, non sono convinto che la richiesta energetica del mio lavorare da casa superi quella della mia automobile per recarmi fisicamente al posto di lavoro.
    In quanto al tasso di sostituzione dei dispositivi elettronici sono perfettamente d’accordo, ma non darei la colpa alla digitalizzazione delle informazioni, quanto piuttosto alla mancanza di regolamentazione del mercato hardware/software. Fosse imposto per legge la possibilità di fare upgrade software, riparare componenti, etc, i nostri dispositivi avrebbero vita molto più lunga. Ma la stessa cosa non è vera forse anche per tutti gli altri beni di consumo? Quanti sono ancora riparabili? Quanti vengono gettati solo perchè non è più economico o è impossibile ripararli? L’Unione Europea si è interessata del problema, ma a quanto ne so non ne è scaturita alcuna norma.
    Saluti

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