Se l’Italia perde le botteghe, noi perdiamo l’Italia per come la conosciamo

Se con l’epopea dei supermercati e degli ipermercati abbiamo svuotato i nostri centri storici per riversarci in capannoni periferici pieni di ogni bene, oggi, 30 anni dopo, assistiamo a una nuova trasformazione epocale. Il consumo abbandona la dimensione della relazione diretta tra chi compra e chi vende per diventare una pratica eterea, che annulla la distanza tra un clic sulla tastiera di un PC o di uno smartphone e la materializzazione del-l’oggetto.

Eppure, dietro la facilità di acquisto e la consegna immediata esiste un mondo a tinte fosche. Da una parte sorgono magazzini centralizzati giganteschi per soddisfare necessità di consegna sempre più impellenti. Un sistema di distribuzione ad alto impatto ambientale per le migliaia di chilometri imposti da consegne polverizzate e aggravato dall’incidenza dei resi gratuiti. Dall’altra nasce un esercito di facchini e corrieri impiccati da tempi di delivery stabiliti da algoritmi infallibili. Affari concentrati in pochissime mani che si spartiscono guadagni enormi, multinazionali tassate meno dell’edicolante o, addirittura, fiscalmente domiciliate all’estero per minimizzare il prelievo fiscale.

A farne le spese sono le nostre città. Siamo di fronte a un vero e proprio bollettino di guerra. Librerie, alimentari, edicole, l’elenco delle attività che chiudono o vedono scricchiolare la propria stabilità è lungo e in continua crescita. Ci rendiamo conto che il nostro paesaggio urbano si sta sgretolando in modo senza precedenti?

Se l’Italia perde le botteghe, noi perdiamo l’Italia per come la conosciamo. Se le nostre città perdono i centri storici, non restano che enormi sobborghi residenziali. Se noi perdiamo le nostre relazioni di vicinato, non restiamo che individui consumatori. Per fortuna un ruolo da giocare ci resta, e può essere quello di protagonisti. Non per arrestare un processo che è storico e probabilmente ineluttabile, ma per dirigerlo e ripensarlo affinché sia positivo e promettente per tutti.

Dobbiamo pensare e realizzare una nuova economia, fondata sui beni comuni e relazionali. In questo le botteghe di prossimità sono un baluardo che non dobbiamo e non possiamo perdere. Non solo nei centri urbani, ma anche e soprattutto nelle aree marginali che insieme ai negozietti vedono sparire un pezzo di quella civiltà artigiana che è l’identità del nostro Paese. Un esempio di successo sono i mercati dei contadini, che offrono un bene insostituibile: la relazione diretta tra chi produce il cibo e chi lo consuma. E questo non impedisce ai contadini di vendere anche online. Forse è davvero il momento di immaginare uno “slow shopping”, un modo nuovo di approcciare il consumo che sia rispettoso dell’ambiente e delle persone che di commercio vivono. La modernità risiede nella capacità di usare la tecnologia per vivere meglio, non per abdicare al nostro essere cittadini e ridurci a consumatori senza volto né voce.

Adattamento da un articolo di Carlo Petrini su slowfood.it

Un pensiero su “Se l’Italia perde le botteghe, noi perdiamo l’Italia per come la conosciamo

  1. Purtroppo è così -di questo senza conoscere quanto da Voi scritto l’altra sera io e mio marito ne abbiamo parlato.
    Un tempo vi erano negozietti e ognuno si sceglieva il più vicino a casa- c’era confidenza e amore con il negozio -io che sono del 1943 la latteria dove andavo ci aiutava quando mio papà si trovava in difficoltà in quanto piccolo Artigiano -ci prestava 10.000, lire -ma io bambina quando andavo a prendere il latte o altro se la Signora mi chiedeva di andare a prendere dei pasticcini da Carini oppure il latte dalla Sorella che aveva un negozio simile andavo.
    La stessa cosa succedeva con il salumiere. Ci si rispettava e amava. Si collaborava

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