Se continuiamo così rischiamo di fare la fine dei gorilla, ormai a livello di pericolo critico, il penultimo stadio prima del rischio di estinzione: la battuta è del professor Andrea Lenzi, presidente della Società italiana di endocrinologia. Il fatto è che in Italia nel 2014 sono nati solo 509.000 bambini, 50.000 in meno rispetto al 2013, la metà rispetto agli anni Sessanta.
Dagli anni del boom economico a oggi è stata una vera e propria corsa verso il basso, che ha portato il nostro Paese a guadagnare gli ultimi posti nella classifica mondiale della natalità. Se non ci sarà un’inversione di tendenza, avvertono gli esperti, nei prossimi anni avremo grandi difficoltà a mantenere il welfare così come la conosciamo oggi, e con molta probabilità, aggiungo, avremo città e famiglie meno felici e gioiose.
Diverse sono le cause individuate da sociologi e demografici per giustificare il calo delle nascite nei Paesi più industrializzati: biologiche (riduzioni della fertilità maschile e femminile a causa dell’inquinamento ambientale, dello stress e del progressivo innalzamento dell’età del parto), sociali (crisi del modello tradizionale di famiglia), economiche (negli ultimi cinque anni la curva di denatalità si è ulteriormente accentuata).
Certo, la diffusa precarietà economica e lavorativa delle giovani generazioni è tra tutti uno dei principali ostacoli alla neogenitorialità, ma è evidente che la ragione principale che fa ritardare o cancellare per sempre la decisione di avere un figlio è da ricercare altrove, in qualcosa di più profondo. Qualcosa che ha a che fare con il senso dell’esistenza e con il dare continuità alla vita stessa, attraverso i figli.
Oggi mettere al mondo una creatura è finalmente una scelta, non più un obbligo sociale o un automatismo come in passato. Se manca una motivazione esistenziale profonda, quella che gli Indiani d’America chiamavano la “la visione”, è facile a trovare tanti motivi per non farlo.
È come se prima di diventare padre o madre fosse necessario un travaglio interno per partorire la propria visione del mondo. Una sorta di iniziazione all’età adulta che ci faccia diventare, prima ancora di essere madri o padri di qualcuno, genitori di noi stessi. Solo dopo questo “parto interiore” si può essere pronti a prendersi cura di un altro essere, a diventare genitori consapevoli di un figlio o una figlia, destinati comunque a essere qualcosa di diverso da noi stessi.
Perché, come dice Khalil Gibran: «I nostri figli non sono nostri. Sono i figli dell’ardore cha la Vita ha di se stessa».
di Mimmo Tringale da “Terra Nuova”