Un viaggio di tre anni e 15.000 miglia: da dove nasce Nomadland, il miglior film degli Oscar 2021
Prima del Leone d’Oro a Venezia e prima dei premi Oscar (come miglior film, miglior regista Chloé Zhao e miglior attrice protagonista Frances McDormand), Nomadland è stata la storia di un libro travolgente, scritto dalla giornalista statunitense Jessica Bruder.
Edito in Italia da Edizioni Clichy, Nomadland — un racconto d’inchiesta, risultato di tre anni in viaggio e oltre 15.000 miglia percorse, — è la cronaca di un ricorso storico: una congiuntura economica e una comunità di Americani senza fissa dimora, in movimento da uno Stato all’altro a caccia di lavori saltuari, senza affitto da pagare e con un pieno di benzina da fare.
The Big Short di Adam McKay, che sei anni fa ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura non originale, è un illuminante riassunto dell’episodio precedente: le obbligazioni sui mutui subprime come fondamenta dell’economia statunitense — perché dài, vuoi che gli Americani non paghino le rate del mutuo? Lo scatto del tasso di interesse variabile da un lato, dall’altro tranche ad alto rischio smaltite e infilate in altre obbligazioni — dog shit wrapped in cat shit, spiegava con il dono della nitidezza il film — e infine il collasso del sistema che lasciò sei milioni di Americani, letteralmente, per strada.
Ex professionisti, impiegati o lavoratori autonomi, esodati della borghesia e di una middle class sempre più assottigliata. Rifiutano il termine senzatetto, preferiscono senzacasa, perché loro un tetto ce l’hanno, anche se è su quattro ruote.
«Molte persone che ho incontrato sentivano di aver trascorso troppo tempo a perdere a un gioco truccato. E così hanno trovato il modo di fregare il sistema» scrive nel libro Jessica Bruder. «Hanno rinunciato alle tradizionali quattro mura, rompendo le catene di affitto e ipoteche. Si sono trasferite in furgoni, camper e roulotte, spostandosi da un posto all’altro alla ricerca del clima mite, e riempiendo i serbatoi coi lavori stagionali».
I loro mezzi hanno nomi di vecchi rocker e band folk, possono essere ricercati calembour o semplicemente evocativi di una indipendenza che a 60, 70 anni pochi mettevano in conto. E sono i più disparati: van rivestiti di pannelli solari, veicoli malmessi e resi abitabili, vecchie Prius e in qualche caso persino artigianali riedizioni dei vardo, i carri in legno dei romaní britannici nell’Ottocento.
Colpiti forte dalla Grande Recessione, girano per l’America e si fermano quando trovano lavoro. Assunti come camp host ad esempio, un po’ guardiani, un po’ manutentori e molto addetti alle pulizie nei campeggi. Lavoro duro, ma meno degli arruolamenti dell’alta stagione prenatalizia nei magazzini Amazon: chilometri e chilometri al giorno in capannoni grandi quanto piccole città, lo stretching di inizio turno che non evita l’abbondante uso di antidolorifici e antinfiammatori nelle ore successive. L’America non si formalizza sull’età, nell’idea che la mancata occupazione avvicinasse un po’ più alla morte.
I vandweller (o workamper, o camper force se sei inquadrato come forza–lavoro da Amazon) stazionano di notte nei parcheggi poco distanti dal luogo in cui hanno trovato lavoro, con stratagemmi per passare inosservati, dall’indicazione delle catene di centri commerciali che tollerano la loro presenza, ai segreti per dribblare polizia e disturbatori. Quasi sempre 14 giorni a sosta, poi sono costretti a spostarsi ad almeno 40 chilometri.
«Non c’è un conteggio esatto di quante persone vivano da nomadi in America», spiega Bruder. «Statisticamente si mescolano al resto della popolazione, perché per legge devono mantenere degli indirizzi permanenti. Il tuo Stato di residenza è quello in cui fai registrare e revisionare i veicoli, rinnovi le patenti di guida, paghi le tasse, voti, fai parte di una giuria, ti iscrivi a un programma di assicurazione sanitaria e adempi a una litania di altri doveri».
Nomadland racconta con dovizia anche l’amarezza dell’inganno svelato nella favola raccontata a ogni americano: puoi fare il tuo onorevole percorso di studi, trovare una buona occupazione, lavorare duramente, e comunque «perdere la mano».
La segregazione residenziale in base al reddito, il senso di inadeguatezza e la demarcazione topografica tra ricco e povero sono ricordi che non danno nostalgia. E nei momenti in cui l’eremitismo e la solitudine possono sembrare un peso, la comunità dei vandweller ha pronti rimedi come il Rubber Tramp RendezVous, un grande ritrovo periodico. Si sta insieme, ci si scambia informazioni e risorse, si condivide tempo ed esperienza, una tappa fissa per coloro che più che entità si sentono parte della vanily, la grande famiglia dei van.
Dice nel libro LaVonne Ellis, un tempo giornalista, vandweller a 67 anni: «Ho trovato la mia gente, un gruppo raffazzonato di disadattati che mi hanno circondato con amore e accettazione. Non intendo perdenti e sbandati. Erano intelligenti, compassionevoli e laboriosi Americani a cui è caduta la benda dagli occhi. Dopo una vita a rincorrere il “sogno americano”, sono arrivati alla conclusione che era un gigantesco imbroglio».
Ezio Azzollini
estratto dall’articolo pubblicato su esquire.com