Quei giganti padroni del cibo

Poche aziende alimentari controllano centinaia di marchi un po’ in tutto il mondo. Sono multinazionali dove domina la finanza. Ma anche grazie al ruolo dei consumatori qualcosa sta cambiando e l’attenzione ai territori aumenta.

Se c’è un qualche cosa che è sicuramente simbolo della globalizzazione sono loro, le grandi multinazionali del cibo. Aziende che valgono in Borsa decine — che in certi casi diventano centinaia — di miliardi di dollari e le cui vendite viaggiano anch’esse con gli stessi ordini di grandezza.

Parliamo di Nestlè, Pepsi Co., Unilever, Kraft–Heinz, Coca Cola, Mondolez, Anheuser Busch, Diageo, Danone, Kellog e via dicendo. Nomi a volte meno conosciuti a chi va fare la spesa. C’è chi ha stimato che queste imprese controllino il 70% del cibo mondiale.

Chissà, avere una cifra esatta è impossibile, ma certo il potere di queste realtà è enorme. Anche perché spesso i consumatori non hanno ben presente che dietro al nome della casa madre stanno decine e decine di marchi diversi che, spesso, siamo portati a pensare siano aziende indipendenti. Alla fine, secondo la stima fatta da un’associazione come Oxfam, che a queste grandi multinazionali (e ai loro comportamenti più o meno virtuosi) ha dedicato un rapporto, parliamo di almeno 500 marchi che troviamo ogni giorno sugli scaffali quando andiamo a fare la spesa. C’è chi ha sperimentato come, in un normale supermercato USA, della dozzina di marchi di margarina mediamente presenti, tutti appartengano in realtà a sole due aziende.

La tendenza degli ultimi decenni è stata quella di avere imprese sempre più grandi, in un susseguirsi di scalate, acquisizioni e fusioni, animate sempre dalla stessa logica della globalizzazione: garantire profitti agli azionisti, far leva sulla finanza e sugli andamenti delle quotazioni di Borsa, ridurre i costi, agire su scala mondiale grazie alla forza dei marchi e della pubblicità. Una corsa che pareva inarrestabile, come pareva inarrestabile la corsa alla globalizzazione sempre più spietata.

Una corsa tra fusioni e acquisizioni


Proprio per questo, poche settimane fa, il colosso Kraft–Heinz, nato appena nel 2015 dalla fusione tra Kraft (che in Italia significa maionese e sottilette) e Heinz (re del ketchup USA), con una capitalizzazione in Borsa da 118 miliardi, ha deciso di lanciare un’offerta di acquisto da 143 miliardi di dollari, verso Unilever (società anglo–olandese da oltre 50 miliardi di vendite). È importante notare che i padroni di Kraft–Heinz sono il miliardario americano Warren Buffett e il fondo brasiliano 3G, dietro cui sta Jorge Paulo Lemann, uno degli uomini più ricchi del Paese. Ebbene, sia Buffett che Lemann hanno i loro soldi investiti in decine di società e aziende che operano nei più diversi campi e dunque la loro logica è prima di tutto far fruttare il loro investimento (si parli di cibo o telefonini, nulla cambia). In pochi giorni l’attacco di Kraft–Heinz a Unilever si è però sciolto come neve al sole. “Colpa” dell’opposizione dei vertici di Unilver e dei dubbi (se non di più) dei Governi: e così Kraft ha fatto marcia indietro. Ma gli esperti garantiscono che Buffett e Lemann, sfuggita Unilever, ora si apprestino a lanciarsi verso altre prede, sempre nella logica di crescere per avvicinarsi, se non superare, il numero uno mondiale del campo del cibo che è Nestlè (con vendite per circa 80 miliardi). «Per leggere una vicenda come questa tra Kraft–Heinz e Unilever — spiega Stefano Liberti, giornalista d’indagine e autore del libro “I signori del cibo” — la prima cosa da mettere in evidenzia è come la dimensione finanziaria sia sempre più decisiva rispetto a quella industriale. Si disegnano scalate pensando a come aumentare utili, che spesso derivano — come nel caso della fusione tra Kraft e Heinz — da tagli sui posti di lavoro per circa il 20%. Specie negli USA, questi gruppi operano non certo per rendere conto ai consumatori. Il riferimento sono gli azionisti, cui occorre garantire lauti dividendi». Questa logica si porta dietro anche altre ripercussioni che spesso non compaiono più di tanto nelle cronache economico–finanziarie.


La finanza vince, l’ambiente perde


«La logica con cui si muovono queste grandi multinazionali — prosegue Liberti — ha ricadute pesanti per l’approccio che hanno verso l’ambiente e verso i Paesi più poveri, da cui vengono risorse e materie prime. Nel mio libro le chiamo “aziende locusta” perché sono in grado di ottenere economie di scala gigantesche, anche a costo di far pagare il prezzo all’ambiente e ai produttori». Fenomeni come il land grabbing  (cioè l’acquisizione di enormi quote di terreno agricolo nei Paesi in via di sviluppo da parte di compagnie multinazionali) sono il simbolo di questo approccio “estrattivo”, cioè prendo le risorse, le uso sin che mi servono e poi torno a casa.
«Se anche la vicenda Kraft–Unilever è fallita, che la spinta verso queste megaziende sia in via di esaurimento è tutto da dimostrare. Voglio ricordare la fusione tra Monsanto e Bayer, che avrà un enorme peso sul piano del controllo dei mercati agricoli, dei brevetti e delle sementi. O il fatto che un altro colosso delle sementi come Syngenta sia stata acquistata dalla cinese Chemchina, cioè del capitalismo di Stato cinese. Sono tutte operazioni enormi, che accentrano risorse e aumentano controllo di pochi sui mercati. Queste non sono buone notizie per i consumatori o per sperare di avere prodotti di maggior qualità e senza OGM».


Se i consumatori si fanno sentire


Già perché vien da chiedere, ma in tutto ciò il consumatore dove sta? Che peso ha? Poco, ancora troppo poco. Ma non si può negare che le cose per alcuni aspetti stiano cambiando. L’attenzione per l’ambiente, per la sostenibilità, per il rispetto dei diritti sono sicuramente cresciuti. Così come c’è più attenzione verso un’alimentazione salutare, equilibrata e senza eccessi. Del resto il paradosso di un mondo che da un lato ha un poco meno di un miliardo di persone che soffrono la fame e dall’altro ha più di un miliardo di obesi e sovrappeso è figlio anche di ciò che queste grandi multinazionali ci hanno proposto e ci hanno convinto a mangiare. Non a caso, già da anni, colossi come Pepsi o Coca Cola stanno proponendo nuovi prodotti più attenti alla dieta. E lo stesso problema lo stanno fronteggiando altri colossi (tra cui McDonald’s). In sostanza, anche le vendite di questi supercolossi mondiali ne hanno risentito.
Forse ciò è avvenuto più in Europa che negli USA (ma comunque in entrambe queste realtà), ma tra spinta verso i prodotti biologici, scelta vegetariana di una parte della popolazione e ricerca di prodotti salutistici e legati al territorio, il cambiamento c’è stato e ha pesato.


Al punto che, come spiega il professor Luca Pellegrini, può darsi che la spinta alla concentrazione in queste super società non sia finita, ma potrebbe rappresentare più di una scelta difensiva e di arroccamento che non un segno di forza. Anche secondo Philip Howard, docente della Michigan State University e autore del libro “Concentrazione e potere nel sistema del cibo” (ancora non uscito in Italia), ci sono segni di qualcosa che si muove: «Queste grandi aziende vengono messe sotto pressione dalla domanda delle persone che portano avanti i loro valori. Stiamo vedendo non solo un aumento del biologico, ma stanno cambiando le pratiche anche sugli allevamenti di animali. C’è chi ha annunciato l’eliminazione degli antibiotici al punto che anche McDonald’s ha annunciato di volersi muovere in questa direzione».


Esempi di battaglie su cui l’attenzione dell’opinione pubblica ha inciso ce ne sono diverse altre (la questione olio di palma, per citarne una). «La consapevolezza del consumatore è sicuramente una chiave fondamentale — spiega Liberti. — Ogni passo verso la trasparenza e una informazione chiara su tutta la filiera, sulla provenienza e la storia di ciò che compriamo sono passi positivi».



A cura di Dario Guidi da “Cooperazione tra consumatori”

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