I prezzi stracciati hanno costi che si ripercuotono sui diritti dei lavoratori, sull’ambiente e sulla salute umana. E questo vale anche nella produzione biologica. Di chi possiamo fidarci?
La scelta di chi garantisce il prezzo equo ai produttori, per una filiera davvero sostenibile che lascia tutti soddisfatti.
Qualche anno fa le campagne di marketing scommettevano sui concorsi a premi, la raccolta dei punti o al massimo sul 3×2. Oggi il cavallo vincente è un altro: il sottocosto. Una strategia che è un vero mistero: come fanno a vendere prodotti rimettendoci? Chi paga il prezzo? Al richiamo del sottocosto i consumatori in tempi di crisi abboccano facilmente. A tirare l’amo in mezzo al mare sono soprattutto gli hard discount, che applicano un controllo spietato sui prezzi e che dal 2008, l’anno della grande recessione, espandono sempre di più la loro azione sul territorio europeo.
In realtà si tratta di un gioco di prestigio, in cui il consumatore più attento al risparmio rimane intrappolato. «Chi ha comprato tutto felice il prodotto superscontato è lo stesso che senza saperlo compra l’insalata in busta a 10 euro al chilo» spiega Fabio Ciconte, direttore dell’associazione ambientalista Terra! ONLUS e portavoce della campagna FilieraSporca contro lo sfruttamento del lavoro in agricoltura. «Detto questo, non credo che si possa addossare tutta la colpa ai consumatori. E non è neanche vero che cercano solo il risparmio. La maggiore responsabilità ce l’ha la grande distribuzione».
Nella competizione globale, il cibo deve costare sempre meno per permettere alla grande distribuzione di spuntare il prezzo più concorrenziale e aumentare le vendite.
Il cibo è merce, prodotta sottocosto, chissà dove e da chissà chi. Abbattere i prezzi finali significa scaricare i costi da qualche parte, e il primo bersaglio sono proprio i produttori, l’anello più debole della catena, che a loro volta possono rifarsi sui braccianti agricoli. C’è sempre qualcuno a cui far pagare il conto alle tue spalle. Ma in realtà il margine si riduce per tutti. E se si riduce la qualità del cibo, aumentano i costi in termini di salute, consumo di risorse e danni ambientali. Siamo davvero sicuri che il prezzo basso sia democratico e sostenibile?
È la vittoria dell’industria del cibo, con le campagne che si trasformano in piattaforme produttive e gli agricoltori che diventano dei meri esecutori di protocolli. È il modello di una produzione del cibo che sta cambiando secondo una logica produttivista, dove l’agricoltore deve produrre con la massima resa e il minimo costo. Il che significa aumentare gli input chimici e l’impatto sul territorio».
D’altra parte, la GDO ha il coltello dalla parte del manico, perché il 70% del cibo prodotto in Italia transita attraverso questo canale, e si può permettere anche qualche colpo basso. Il più eclatante degli ultimi anni è l’asta al doppio ribasso, una pratica utilizzata dalla maggior parte dei giganti della grande distribuzione, con un meccanismo perverso che assegna la fornitura all’azienda che offre il prezzo inferiore dopo due gare. La prima è alla cieca, mentre la base d’asta della seconda è il prezzo minore raggiunto durante la prima.
Qualche passo in avanti è stato compiuto recentemente: le aste al doppio ribasso sono state messe al bando da una proposta di legge approvata lo scorso giugno con una maggioranza trasversale e la sola astensione di Forza Italia.
LA MAFIA SOTTO IL CARRELLO
Alla fame non si resiste. Basta saper schiacciare bene i costi della produzione e il cibo diventa un affare sicuro, che consente di fare guadagni anche in tempi di crisi. Ecco che dietro il low cost si annidano facilmente sfruttamento della manodopera, pratiche commerciali scorrette e infiltrazioni mafiose.
Dopo aver sdoganato le monocolture, possibili solo con il sostegno della chimica di sintesi, dopo aver creato sementi sempre più produttive e standardizzate, non resta che comprimere il costo del lavoro. Cosa che il sistema del caporalato nelle nostre campagne riesce a fare molto bene.
Sono oltre 400mila i lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale, con una paga che si aggira sui due euro all’ora. Anche il biologico, che notoriamente richiede più manodopera, finisce dentro questo meccanismo. Anzi, è ancora più appetibile per il malaffare perché è di tendenza e viene pagato di più.
UN ALTRO MODO DI FARE BIOLOGICO
Il bio ha prezzi più alti? Non bisogna meravigliarsi. I prodotti bio costano di più perché il costo di produzione è superiore a quello del convenzionale. Le rese sono minori senza la concimazione chimica, i rischi sono maggiori perché non si possono usare insetticidi e anticrittogamici consentiti nell’agricoltura convenzionale e si hanno a disposizione prodoti naturali che hanno un effetto ridotto. Non solo: l’azienda biologica effettua complesse rotazioni colturali al posto della monocultura che semplifica i processi e riduce i costi di produzione. Nelle aziende bio inoltre si utilizza maggiore manodopera, soprattutto per il controllo delle erbe infestanti. In altre parole, comprimere i prezzi è ancora più difficile rispetto al convenzionale.
«Secondo uno studio della Soil Association inglese» argomenta Fabio Brescacin, presidente di EcorNaturaSì, «il costo sanitario, ambientale e sociale del prodotto convenzionale è il doppio di quello che pagano i consumatori. Questo significa che il prezzo non pagato dal consumatore allo scaffale comporta un costo occulto.
ALTRO MERCATO: L’EQUO SOLIDALE ITALIANO
Aiutiamoli a casa propria, e cioè in Italia. Se richiediamo prodotti certificati fair trade nel Sud del mondo, che rispettino l’ambiente e la dignità del lavoro, perché non farlo anche in Italia? Perché non applicare le regole del commercio equosolidale per sostenere i piccoli produttori del nostro Paese e valorizzandone i prodotti agroalimentari e artigianali?
La cooperativa Altromercato di Bolzano già dal 2011 ha raccolto la sfida e ha dato vita al progetto Solidale Italiano, lanciando un manifesto firmato anche da Slow Food, AIAB e Gruppo cooperativo CGM, per promuovere in Italia le regole che governano il commercio equosolidale a livello internazionale.
Al di là dal fondamentale riconoscimento del giusto prezzo si valorizzano gli aspetti sociali ed etici del lavoro. I progetti di agricoltura sotenibile si basano prevalentemente su un modello di agricoltura sociale con lotta al caporalato o con progetti di economia sociale e economia carceraria che offrono accesso al lavoro, riscatto sociale e positivo reinserimento nella società. E siccome le filiere sono sempre fragili e frastagliate, diventa difficile controllare anche il prezzo. Per questo motivo i prodotti vengono spesso trasformati e confezionati direttamente alla fonte. Tra le realtà più significative c’è la cooperativa Pietra di scarto di Cerignola, che dal 2010 gestisce tre ettari di terreno confiscato alle mafie, coltivato in uliveto e pomodori. La cooperativa produce olive «Bella di Cerignola» e pomodori cercando di mettere in pratica il senso più profondo della legge 109/96: quello di trasformare i luoghi simbolo del potere mafioso in laboratori di rinascita sociale ed economica, in un territorio strangolato da una subcultura mafiosa e da fenomeni quali il caporalato e lo sfruttamento della manodopera straniera.
Dal 2010 i ragazzi della cooperativa organizzano, insieme ad altre realtà del territorio, campi di Libera e iniziative antimafia aprendo sempre più le porte a gruppi, associazioni, scuole che arrivano a visitare i terreni e ad ascoltare questa piccola esperienza di economia di liberazione.
SE SI LAVORA BENE IL PRODOTTO È PIÙ BUONO
«Il prezzo trasparente si raggiunge se tutti i soggetti della filiera fanno la loro parte» dice Maurizio Gritta, presidente di Iris Bio, la cooperativa agricola modello di gestione economica, che ha attivato una filiera dei cereali con quasi 290 aziende agricole socie in tutta Italia, per oltre 1500 ettari in rotazione. «Il valore di Iris è che si firma il contratto alla semina. Si stipula il prezzo insieme, coinvolgendo anche il consumatore finale attraverso i gruppi d’acquisto». La cooperativa ha inserito nel contratto un premio di qualità, un incentivo per migliorare nelle buone pratiche, nella convinzione che non ci si debba accontentare del biologico certificato: il biologico deve avere caratteristiche organolettiche migliori.
«Non è sufficiente avere la certificazione» continua il bioagricoltore pioniere. «Se entro in un’azienda e non vedo piantare siepi, non vedo rotazioni o l’uso di tecniche che sono indispensabili per noi c’è qualcosa che non va. Fare bio significa migliorare il territorio, piantare piante, lavorare sulla fertilità della terra».
Il mercato di Iris si divide a metà, tra Italia e estero, dove la pasta di qualità viene molto apprezzata. A livello nazionale, da sempre, si è puntato sui gruppi d’acquisto solidale, che Iris tra l’altro negli anni Novanta ha contribuito a far nascere. Oggi però nel mondo dei GAS si assiste a un costante calo degli ordini, a cui si possono dare diverse ragioni. I giovani non vogliono perdere tempo in riunioni? Può darsi, ma soprattutto c’è un fatto: il bio certificato, cattivo o buono che sia, oggi si trova dappertutto, persino nei discount.
I GAS DEVONO RESISTERE!
Ogni anno al Sana di Bologna, la più grande fiera di settore, si festeggia la grande crescita del biologico, con indici di crescita a due cifre. Ma i numeri grossi in realtà li fa la grande distribuzione. Un dato su tutti è quel +33% nei discount registrato nel 2018. Una tendenza che di fatto ha messo in ginocchio alcuni produttori storici che fanno bio per convinzione da oltre trent’anni in Italia. I gruppi d’acquisto hanno una grande funzione, devono alzare l’asticella rispetto al biologico industriale, andando nella direzione dell’agroecologia che è anche difesa della terra, della natura, delle relazioni col territorio, cose che la grande distribuzione non può avere. E poi bisogna lavorare sui prezzi, una partita difficile, che deve essere giocata sulla qualità.
La sfida più impegnativa è far sì che i prodotti finali dei percorsi di valorizzazione delle sperimentazioni e delle esperienze locali non finiscano solo negli ingranaggi della GDO che, al di là di tutte le rassicurazioni del caso, non sembra ancora avere pieno rispetto del lavoro agricolo.
adattamento da TerraNuova n. 352, settembre 2019