In una società in cui siamo sempre più soli, lo stile di vita, i ritmi lavorativi, persino la pianificazione urbanistica delle città, ci tengono distanti gli uni dagli altri. Ma alcune forme di abitare collaborativo, come il vicinato solidale, possono essere l’antidoto all’isolamento.
Alla solitudine cronica che ha colpito la nostra società sembra non esserci facile rimedio. Spesso a sentirsi abbandonati da tutti non sono unicamente gli anziani e i soggetti più fragili. Tra coloro che si dichiarano soli e senza qualcuno a cui chiedere aiuto, è in constante aumento anche il numero di giovanissimi. Quello che più ci manca sono le relazioni strette, la rassicurazione di poter contare reciprocamente su qualcuno nei momenti difficili.
Per capire le origini di questa deriva, un’inchiesta di Presa diretta è partita dal Giappone, perché lì, dove solo nei primi tre mesi del 2024 quasi 22.000 persone sono morte in solitudine, esiste persino una parola per chi muore senza che nessuno pianga la scomparsa: kodokùshi.
Nel Paese dei capsule hotel dove fermarsi a dormire quando si finisce di lavorare troppo tardi — il mercato della tecnologia relazionale, grazie all’industria fiorente degli emotional robot, sfiora i cinque miliardi di dollari l’anno. L’amicizia è un bene di consumo al pari di tutti gli altri, per questo c’è chi paga fino a 40 euro l’ora per trascorrere un pomeriggio con un amico comprensivo, disponibile e a noleggio. Sempre in Giappone — che ha la popolazione più anziana del pianeta, seguito a ruota dall’Italia — è in corso un’emergenza nazionale, dovuta al numero crescente di anziani che compiono dei piccoli reati per essere rinchiusi in carcere, perché persino la cella è una prospettiva più confortante di una vita in solitudine.
IL COHOUSING NON BASTA
Persino le città si stanno plasmando ai bisogni di una società di cui la solitudine è una delle cifre distintive. Nei quartieri residenziali non ci sono servizi, solo abitazioni raggiungibili senza il rischio di incrociare qualcuno. Gli spazi tra le abitazioni, luoghi di interazione e scambio, sono assenti nel modello di evoluzione urbanistica verso cui stiamo tendendo, sottolinea Elena Granata, docente del Politecnico di Milano, a proposito del capoluogo lombardo, la città europea con il numero più alto di famiglie mononucleari.
Un istante prima di chiuderci in casa, esiste un universo relazionale sempre meno esplorato. Ce ne parla Elvio Raffaello Martini, psicologo e presidente di “Buon Abitare”, un’associazione di promozione sociale, impegnata a riportare l’attenzione sulle relazioni di vicinato e aiutare le persone a prendersene cura, tornando a formare una comunità. Perché il vicinato solidale, una delle possibili forme di abitare collaborativo (ovvero un progetto abitativo fondato innanzitutto sulla reciprocità tra i membri della comunità), riporta indietro le lancette di qualche decennio, a quando si conoscevano i propri vicini e ci si sosteneva vicendevolmente. Oggi troppe cose sono cambiate, eppure questo modello di comunità consapevole e proattiva, è possibile.
«Il vicinato solidale rende collaborativo l’abitare. La dimensione relazionale è infatti fondamentale. Non solo perché ci si può aiutare reciprocamente, ma anche per condividere dei momenti di insieme», spiega Martini. Per sfuggire alla solitudine in molti decidono di andare a vivere in un cohousing. «Il cohousing (una forma di abitare collaborativo in cui individui o famiglie vivono in abitazioni private ma condividono spazi e risorse comuni — ndr) è una risposta al problema della solitudine, ma vale per una minoranza esigua di persone. Non tutti sono disposti a lasciare la propria abitazione o ne hanno l’opportunità. Io sposterei l’attenzione sul vicinato solidale, che parte dalle stesse premesse ma arriva a una soluzione diversa. Con il vicinato solidale invitiamo le persone a investire nel posto in cui si trovano, coinvolgendo le altre persone che abitano in quel posto».
C’È VICINATO E VICINATO
È come se dovessimo riapprendere delle regole di vivere sociale e solidale. Il punto è che si tratta di un’intenzione collettiva: non si può costruire da soli una comunità intenzionale che dia vita a un vicinato solidale. Non è solo l’assenza di conflitti tra vicini né quello che viene considerato buon vicinato.
«Nel vicinato solidale le persone hanno fatto un patto fra loro: si sono organizzate e hanno acquisito competenze per portare avanti un’azione collettiva in grado di garantire l’aiuto reciproco e la cura del proprio contesto», chiarisce Martini che, come psicologo di comunità, si occupa di contesti abitativi specifici: «Nel mio lavoro metto a fuoco il rapporto tra le persone e un dato contesto, le relazioni che le persone hanno fra loro e le relazioni che le persone hanno nel contesto, che influisce sulla loro qualità della vita. Se ad esempio in un condominio ci sono tante persone sole ed esse hanno la sensazione che nessuno si occupi di loro, il problema non riguarda tanto le persone, quanto il contesto».
VICINATO SOLIDALE
Ma come dar vita a un vicinato solidale? L’associazione “Buon Abitare” coinvolge soggetti diversi, da privati cittadini a società, e professionisti come psicologi e architetti. «Quando organizziamo delle formazioni per cittadini emergono numerosi dubbi e difficoltà», prosegue Martini. «Le persone sono rinchiuse nelle proprie case, ognuno pensa agli affari propri. Da dove si comincia? Molti hanno paura di risultare invadenti, hanno delle remore all’idea di disturbare chi ha delle vite molto intense e non ha tempo per gli altri».
A fare da propulsore a un vicinato solidale c’è una comunità intenzionale, quelle che Martini definisce un circolo di “Buon Abitare”: «Di solito è formata da vicini che sono d’accordo nel collaborare fra loro e con gli altri per rendere il loro vicinato un vicinato solidale. Il circolo è aperto, ma ovviamente non ne fanno parte tutti gli abitanti. Nel corso del tempo, questo diventa un punto di riferimento per tutte le persone che abitano nel vicinato e anche per i servizi e per le istituzioni».
Il lavoro di “Buon Abitare” è orientato a coltivare la cura di queste relazioni di vicinato, ma il ruolo principale è giocato indubbiamente dalle stesse persone che abitano in quel vicinato. Ai tempi della solitudine come gabbia dorata di esistenze che apparentemente scorrono imperturbabili fino al primo campanello d’allarme, le forme di abitare collaborativo rappresentano una possibile inversione di rotta. Una profonda e silenziosa rivoluzione culturale che potrebbe salvarci a due passi dal baratro dell’isolamento verso cui sempre più ci stiamo proiettando. Ma occorre una consapevolezza diffusa e condivisa. La cura del luogo in cui abitiamo e delle relazioni richiede tempo e uno sforzo collettivo: necessario perché la solitudine non ci renda sempre più invisibili gli uni agli altri.
Benedetta Torsello