Si è celebrata ieri la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, in cui, come ogni anno, la Fao ci invita a riflettere sul cibo. In questa edizione ci esortava ad agire a ogni livello per raggiungere il secondo obiettivo dell’Agenda 2030: “un’alimentazione sana per un mondo a #famezero”.
Non si tratta quindi di un tema nuovo, ma il quadro globale anziché migliorare sta progressivamente peggiorando. Eliminare la fame e la malnutrizione, purtroppo, è ancora una delle grandi sfide del nostro tempo.
La necessità urgente, ancora una volta, è avviare un processo di governance responsabile a livello internazionale, che veda la collaborazione tra il settore pubblico e quello privato per investire, innovare e creare soluzioni durature. La strada verso lo sviluppo ragionevole è fare sistema per organizzare una politica di contrazioni in quelle realtà ricche, afflitte da patologie da iperalimentazione e spreco alimentare in crescita, facendo convergere gli impegni verso chi ha troppo poco.
Se avessi la possibilità di dire a miei nonni che nella parte di mondo in cui vivo oggi si spende più per dimagrire che per mangiare; se venissero a sapere che sono circa duemila i miliardi di dollari investiti nella cura dell’obesità, mentre due miliardi di persone non hanno nemmeno accesso alle sostanze nutritive per sopravvivere; se gli raccontassi che nell’epoca dell’abbondanza, in cui ogni anno si buttano via circa 222 milioni di tonnellate di cibo, una persona su nove soffre ancora per fame; ebbene, se gli dicessi tutto questo, mi prenderebbero per matto. Eppure, a essere impazzito non è il loro nipote ma il mondo in cui viviamo. Basta pensare a quegli 821 milioni di persone che soffrono la fame, in crescita per il terzo anno consecutivo, a fronte di uno spreco alimentare scellerato e all’aumento di obesità. Un dato che grida giustizia e che oggi, in occasione di questa importante celebrazione, risuona ancora più forte nelle coscienze di ognuno di noi.
Le cause
Ma cosa c’è alla base della totale inefficienza del nostro sistema alimentare? Senza dubbio le cause sono diverse, complesse e spesso concatenate. Oltre a conflitti storici che ancora oggi ostacolano l’estirpazione del problema alla radice, non possiamo ignorare gli effetti di decenni di politiche agricole e fenomeni economici perversi (come il land grabbing e il sostegno all’agroindustria) che hanno alimentato le disuguaglianze tra i giganti del cibo e i milioni di produttori di piccola scala.
Al contrario di quello che si può pensare, questi ultimi giocano un ruolo fondamentale nel disegnare soluzioni per sfamare il mondo. Difatti è proprio da loro che dipende la maggior parte della produzione alimentare globale: i dati parlano chiaro, e ci dicono che le aziende agricole familiari rappresentano oltre il 90% di tutte le realtà di categoria e che producono, in termini di valore, circa l’80% del cibo consumato a livello globale. Questi numeri sono fondamentali per capire che se la lotta alla fame non passa dalla tutela di chi ogni giorno si impegna per far arrivare il cibo sulle nostre tavole in maniera rispettosa dell’ambiente e della tradizione del proprio territorio, abbiamo perso in partenza.
Se spariscono loro, schiacciati da una concorrenza spietata e da un sistema di mercato aguzzino, l’accentramento di potere che già sta avvenendo sul fronte delle sementi (il cui mercato oggi è controllato per il 63% da quattro multinazionali) prenderà sempre più piede, aggravando ulteriormente la situazione.
Salvaguardare la libertà di queste piccole grandi realtà significa infatti combattere la desertificazione e lo sfruttamento intensivo del terreno, due altri fattori che aumenteranno esponenzialmente il problema dell’accesso al cibo.
Un miliardo e mezzo di persone traggono il loro sostentamento da terreni che sono a rischio desertificazione e ogni anno perdiamo 12 milioni di ettari di terra fertile. Le piccole aziende, per contro, spesso fanno della diversificazione delle colture, vitale per la fertilità del suolo e per la salvaguardia della biodiversità, una strategia per diminuire il rischio d’impresa, con realtà spesso organizzate a ciclo chiuso, dove allevamento e agricoltura coabitano e in cui l’output di uno diventa input dell’altro. Oltre a essere importante a livello quantitativo, quindi, l’elemento distintivo di questo tipo di agricoltura è la sua capacità di essere davvero sostenibile, ovvero di saper durare nel tempo, tutelando gli ecosistemi.
Possiamo dunque sperare in un futuro libero dalla fame, ma ha senso farlo solo se ci adoperiamo nel concreto per supportare chi quotidianamente il cibo lo coltiva e lo custodisce, ricordandoci che anche noi cittadini abbiamo una grandissima responsabilità sociale e che, con i nostri acquisti, abbiamo la possibilità di scegliere ogni giorno da che parte stare, perché dietro ogni prodotto c’è uno stile di produzione, di distribuzione e di impiego delle risorse ben precisi.
Carlo Petrini