ABORTO, II DIBATTITO NEGATO MAI VERE DISCUSSIONI, SOLO SLOGAN

Di aborto è quasi impossibile parlare. È un argomento rimosso dalle conversazioni private e guardato con ostilità nei dibattiti politici. Ogni tanto la cronaca interrompe questo silenzio, spesso quando accade qualcosa di inimmaginabile. È il caso di Leandro Aletti, che ha accolto alcune donne nel reparto IVG di Melzo di cui era responsabile gridando «Assassine!» (il fatto è accaduto nell’ottobre 2009, il primario è stato denunciato per ingiuria, ndr), o i casi di Margherita e di Monica, inciampate in un meccanismo messo in crisi dall’altissimo numero di obiettori di coscienza.

L’aborto sembra rientrare in quello spazio angusto e ipocrita del «si fa ma non si dice», o peggio dell’ingenua credenza che fare finta di niente faccia scomparire ciò che ci disturba. Eppure nel 2011 sono state eseguite circa 110.000 interruzioni di gravidanza, nel 2010 quasi 116.000. Dal 2000 ad oggi sono quasi 1,5 milioni le interruzioni di gravidanza. I numeri sono in calo — sono addirittura dimezzati se si pensa che nel 1982 i casi erano stati 234.801 secondo la Relazione sull’interruzione volontaria di gravidanza — ma verosimilmente conosciamo molte donne che hanno abortito e non lo sappiamo perché di aborto è impossibile parlare.

L’alternativa al silenzio è un dibattito scomposto e qualche volta in malafede. Le presunte argomentazioni contrarie alla possibilità di scegliere vanno dall’affermazione che abortire sia un omicidio al monito «avresti potuto evitarlo», da «io non lo farei» a «nessuno deve farlo». 

Subito dopo ci sono quelli che giustificano l’aborto come circostanza eccezionale, e che si sentono in dovere di anticipare o concludere che comunque è sempre una scelta che pagherai ad altissimo prezzo — come se il dolore e la colpa potessero in parte attenuare un delitto che non si poteva evitare ma che è pur sempre un delitto.

Il richiamo al dramma necessario ha almeno due problemi: 

non cambia lo statuto morale dell’aborto (se un atto è immorale rimane tale anche se soffri molto nel compierlo)  

carica di vergogna e di silenzio una possibilità moralmente legittima e prevista dalla legge.

Se non lo si può vietare, non ancora e non di nuovo, che rimanga il più sgradevole possibile: per esprimere così il proprio giudizio sdegnoso e condannare le donne a sopportare le conseguenze della loro «irresponsabilità», è raro che il richiamo retorico alla contraccezione e all’evitabilità sia indirizzato anche agli uomini.

Una spia ulteriore della matassa di contraddizioni sta nella eccezione al divieto assoluto concessa in caso di stupro. Sia dal punto di vista morale sia nel caso di molte leggi restrittive si è disposti a negare l’aborto ma, allo stesso tempo, a prevedere la possibilità di farvi ricorso in seguito a una violenza sessuale. Se emotivamente è comprensibile, razionalmente è una giustificazione inammissibile.

Se condanniamo l’aborto in nome della difesa dell’embrione (bambino non nato, per usare la terminologia dei contrari alla libera scelta), il modo in cui il suo sviluppo è cominciato non incide su quei diritti. Non lo si può dire però, perché è troppo impopolare non ammettere questa eccezione e il fronte no–choice preferisce lasciare in ombra questa contraddizione invece che usarla per ripensare il divieto assoluto.

Perché non può che essere la donna a decidere se portare avanti una gravidanza oppure no, e le ragioni che la spingono a farlo sono intime e incontrovertibili. Dovremmo tenerci i nostri sprezzanti commenti per noi, tanto più che nella maggior parte dei casi non sono opinioni, ma uno sfogo cieco e brutale. A volte vere e proprie bugie, come il mettere in guardia da presunti effetti fisici: l’aborto ti renderà sterile, ti farà venire il cancro al seno o all’utero, ti farà impazzire.

È spaventoso a questo riguardo il report del 2006 di Henry A. Waxman sulle informazioni sbagliate offerte dai Pregnancy Resource Centers alle donne che chiedevano informazioni e non è raro scoprire che detrattori fanatici dell’aborto arrivino nelle scuole a presentare fantasmi come verità scientifiche. Un’altra conseguenza inevitabile e taciuta è che impedire il ricorso all’aborto significa imporre a una donna di portare avanti una gravidanza: strada moralmente ripugnante e praticamente difficilmente percorribile.

Come si potrebbe obbligare qualcuno a non cercare un rimedio? L’unica strada appare essere la contenzione o un trattamento sanitario obbligatorio. Se appare impercorribile il ricovero forzato in caso di gravidanza a rischio e al fine di proteggere il feto (come sostiene Julie D. Cantor nell’articolo «Court-Ordered Care — A Complication of Pregnancy to Avoid» sul The New England Journal of Medicine del 14 giugno 2012), dovrebbe esserlo ancor di più a scopo preventivo. Oppure fare finta che basti l’illegalità per prosciugare gli aborti — perché non accade, gli aborti sono solo resi più pericolosi e la colpa è alimentata dal divieto e dalla clandestinità. Le donne muoiono o riportano gravi danni.

Sono passati pochi mesi dalla morte di Savita Halappanavar in Irlanda e muoiono continuamente moltissime donne nei Paesi dove l’aborto è inaccessibile. È utile sottolineare che gli effetti della clandestinità non costituiscono un argomento a favore della legittimità dell’interruzione di gravidanza, ma una informazione collaterale che è necessario avere. Per difendere la legittimità morale dell’aborto si può cominciare a ritroso per arrivare alla conclusione che non ci sono alternative a un servizio di interruzione di gravidanza legale e sicuro.

Se una donna rimane incinta (per distrazione, per inefficacia contraccettiva, per ignoranza, in seguito a una violenza) si trova davanti a due alternative: portare avanti la gravidanza o interromperla. E anche chi giudica ha due alternative: lasciare che sia lei a scegliere, oppure costringerla — tra le costrizioni rientra ovviamente anche l’aborto.

È la costrizione ad essere inammissibile, non l’oggetto della scelta (negata). La credenza che l’embrione debba essere protetto a scapito della donna e messo in opposizione alla sua scelta non ha giustificazioni abbastanza forti: la discussione sullo statuto morale è infinita, ma l’attribuzione di diritti fondamentali all’embrione incontra difficoltà insormontabili (ne ho scritto in Quali diritti per gli embrioni? o, più brevemente, in L’embrione e la scala cromatica. Essere una persona «potenziale» non basta per aspirare ad avere gli stessi diritti di una persona attuale.

Infine, uno studio recente si sofferma su una domanda mai posta: cosa succede alle donne cui è impedito di abortire? Che effetto ha la costrizione? Sono le Turnaways, e impedire l’aborto sembra essere ben più maligno che poter scegliere di interrompere una gravidanza non voluta. Incentivare l’informazione e la contraccezione, o rimuovere le ragioni materiali che portano alcune delle donne (ma non tutte) ad abortire è — ovviamente — augurabile. Non dovrebbe però essere un modo sotterraneo per aggredire la scelta.

È bene anche sapere che esiste una sorprendente correlazione tra la difesa dei non nati e la disattenzione nei loro confronti una volta nati. Alcuni anni fa George Carlin in un famoso monologo, Prolife, Abortion, and the Sanctity of Life, l’aveva messa così: «[I conservatori] sono tutti a favore del non nato. Farebbero qualsiasi cosa per il non nato. Ma una volta che sei venuto al mondo, ti devi arrangiare. I conservatori pro–life sono ossessionati dal feto a partire dal concepimento e per nove mesi. Dopo non vogliono saperne di te».

Il dibattito e le fallacie sono antiche. Oltre alla nota posizione critica di Pierpaolo Pasolini, proprio sulle pagine del Corriere della Sera negli anni Settanta si svolse un duro scambio tra Italo Calvino e Claudio Magris. Il 9 febbraio 1975 Calvino risponde a un articolo di Magris pubblicato il 3, «Gli sbagliati». Non dimentichiamo che abortire allora era ancora illegale e la discussione sulla depenalizzazione era feroce (l’articolo 545 del Codice Penale vietava l’aborto in quanto delitto contro la integrità e la sanità della stirpe: allora l’embrione non era ancora oggetto di interesse).

In «Che cosa vuol dire rispettare la vita» Calvino scrive:

«Solo chi – uomo e donna – è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza. […]
Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale (Pasolini) “impiega” la sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un bell’incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle “misure igienico-profilattiche”; certo, a te, un raschiamento all’utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t’obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo vitalismo dell’integrità del vivere” è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite. Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia».

Chiara Lalli

fonte: www.27esimaora.corriere.it

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