Quando i robot sostituiranno i contadini

La scorsa settimana il New Yorker dedicava un lunghissimo articolo al tema dell’intelligenza artificiale in agricoltura.

Analizzando la situazione degli Stati Uniti, il reportage partiva dalla premessa che le continue strette sull’immigrazione mettono in difficoltà gli agricoltori che non trovano sufficiente manodopera da impiegare nella raccolta di frutta e verdura (problema presente in maniera sensibile anche in Europa, a dispetto di qualsiasi “allarme invasione”). La risposta? A raccogliere saranno i robot. Milioni di dollari di investimenti e tutte le più grandi università del mondo impegnate in una corsa all’invenzione di robotsempre più sofisticati e capaci di automatizzare processi produttivi finora considerati esclusivamente manuali come la raccolta delle fragole, delle mele, delle arance o della verdura in foglie. Utilizzando in maniera combinata intelligenza artificiale, robotica, big data, droni e scienze dei materiali è diventato possibile sviluppare macchine in grado di analizzare ogni singola pianta e decidere se e quando sia necessario eliminare erbe infestanti o parassiti, se e quali piante necessitino di essere irrigate o meno e quali frutti siano maturi, consentendo di raccogliere senza danneggiarli solo quelli pronti.

Quella che si sta aprendo, o si aprirà in un futuro molto prossimo (per il momento si è arrivati ai prototipi non ancora in commercio), è dunque una nuova frontiera della meccanizzazione in agricoltura che, dopo la rivoluzione verde degli anni Sessanta (trattori, pesticidi e fertilizzanti cambiarono per sempre il modo di produrre cibo), sembra andare incontro a una nuova era in cui l’uomo viene definitivamente espulso dalla campagna. Nella sostanza, l’agricoltore di domani sarà una sorta di addetto alla sicurezza che, in una stanza piena di monitor e di spie luminose, controllerà l’attività all’interno dei suoi campi riprogrammando software e monitorando parametri raccolti dai macchinari che in autonomia si aggireranno tra i filari. Niente più lavori faticosi, niente più schiene piegate.

Ora, fatto salvo che nessuno si sognerebbe di difendere un bracciantato fatto di sfruttamento e violenza, di diritti calpestati e di caporalato come vediamo spesso nelle campagne di tutto il mondo, alcune riflessioni vanno comunque fatte: se si fatica a trovare lavoratori agricoli a causa di salari bassi e difficili condizioni di lavoro, possibile che la risposta sia eliminare il lavoro? Fin che si può si utilizza lavoro sfruttato salvo poi, invece che valorizzarlo e regolarizzarlo, sostituirlo con quello meccanizzato. Inoltre, chi potrà accedere a queste tecnologie? Solo i grandi potentati agricoli, che accumuleranno nelle loro poche mani sempre più potere produttivo e di mercato tendendo ad espellere i produttori di piccola scala che certamente non avranno milioni di dollari da investire. Insomma, il rischio è di andare incontro a una digitalizzazione dell’agricoltura che sia né più né meno che la riproposizione in versione rurale di quanto abbiamo visto accadere con i giganti del digitale. Concentrazione del potere, ulteriore precarizzazione del lavoro, definitiva cesura del legame tra uomo e terra. Senza contare che, per usare i robot, serve intensificare ulteriormente il sistema produttivo tramite monocolture sempre più spinte e incuranti di qualsiasi legame con il territorio su cui insistono.

Ciliegina sulla torta, un dato: se la raccolta si può meccanizzare, quello che non si può automatizzare è il lavaggio e la manutenzione dei macchinari. Perché? Perché si possono impiegare lavoratori con salario minimo che costano meno di qualunque macchinario. I bei tempi andati non sono mai esistiti, ma da questi segnali non c’è da aspettarsi nemmeno futuri mirabolanti.

Rinaldo Rava

fonte: slowfood.it, da Il Manifesto del 18 aprile 2019 

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