DIAMOCI IL PERMESSO DI SBAGLIARE

Quando ci sbagliamo e commettiamo un errore immediatamente si attiva il nostro giudice interiore, pronto a commentare la gravità di quanto fatto e a impartirci la punizione del senso di colpa o del senso di inadeguatezza. 

“Che stupido che sono”, “Perché non ci ho pensato?”, “Chiunque lo avrebbe capito prima”, “Sono proprio una frana”, “Che vergogna”, “Che imbarazzo”, “Mi sento tremendamente in colpa”, “Non sono all’altezza del ruolo che mi è stato dato”, “Non ho capito niente”, “Non è possibile che sia successo”, “È inaccettabile”… 

È un giudice interiorizzato da quando eravamo bambini e abbiamo imparato a distinguere ciò che è bene da ciò che è male attraverso le risposte dei nostri genitori ai nostri comportamenti. Quelli che venivano premiati sono stati rinforzati e valorizzati, quelli che venivano puniti sono stati memorizzati come sbagliati. 

Quando da adulti sbagliamo, è la voce del nostro genitore interiorizzato che si fa sentire. Un dialogo interno che commenta tutto. Ma c’è genitore e genitore. C’è quello severo che non ammette errori e c’è quello fiducioso che considera gli errori una fonte di apprendimento diretto. C’è il genitore di un bambino piccolo che sa che ogni più piccolo errore può essere fatale e c’è il genitore dell’adolescente che sa che ogni errore è un passaggio di crescita verso l’età adulta. 

Un percorso di sviluppo sufficientemente sano ha visto ampliare poco alla volta lo spazio di libertà e sperimentazione che i nostri genitori ci hanno affidato, fino alla libertà di essere quello che siamo, alla fiducia di poter provare, sbagliare, rialzarci e cadere di nuovo, senza che questo costituisca un problema. 

Per sentirci liberi di essere, e quindi di sbagliare, dobbiamo però rinunciare all’illusione di fare sempre bene o addirittura meglio. Il confronto con un modello ideale di sé, perfetto e senza macchia, anziché aiutarci a migliorare, spesso inibisce i nostri comportamenti e atteggiamenti naturali. La paura di sbagliare diventa un freno alla nostra crescita spontanea. Gli errori diventano un difetto e non una variabile da affrontare. La nostra vulnerabilità rappresenta qualcosa da nascondere e non una fonte di apprendimento

La consapevolezza che coltiviamo con la pratica di Mindfulness ci aiuta ad accorgerci di questi vincoli della mente e a liberarci da questa trappola cognitiva del paragone, con il sé ideale o con l’idealizzazione degli altri, che ci sembrano sempre migliori di noi. 

Quando meditiamo, coltiviamo amorevolezza e gentilezza verso ciò che siamo, provando ad accettarci completamente, senza volerci diversi e senza giudicarci in continuazione. 

Impariamo a riconoscere i pensieri giudicanti al loro sorgere e depotenziarli attraverso la defusione cognitiva, ovvero la capacità di prendere una distanza sana dai nostri giudizi e guardarli per quello che sono, solo dei pensieri, dei prodotti temporanei della nostra mente. Non dei fatti, non delle verità, ma dei fenomeni psichici frutto di tanti condizionamenti. 

La mindfulness ci insegna poi a non lottare contro la nostra auto–critica, non evitarla a tutti i costi sforzandoci di avere una visione solo positiva di noi stessi; impariamo praticando a osservare i nostri pensieri giudicanti come se fossimo degli scienziati, interessati al fenomeno e non invischiati con esso. 

È così che mentre meditiamo impariamo a darci il permesso di vivere una vita piena, piena di emozioni ma anche piena di errori, di scoperte, di sperimentazioni, di esplorazioni. È così che le nostre giornate tornano a essere una avventura e si liberano di quella patina di routine che troppo spesso le accompagna. 

Valeria Degiovanni 

Da www.mindfulvision.it/

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